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 Camelot, sulle tracce della saga di Artù

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volsung




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MessaggioTitolo: Camelot, sulle tracce della saga di Artù   Camelot, sulle tracce della saga di Artù Icon_minitimeLun 21 Mar 2011 - 11:02

E' la città ideale del medioevo, immaginata tra spettacolari foreste incantate, con le sue torri, i suoi castelli, la sua ricchezza e, al tempo stesso, la sua armonìa. Nel mito Camelot si trova in un luogo senza tempo in cui il codice cavalleresco dettava legge. In quella che veniva descritta come la reggia di re Artù c'era posto solo per le imprese dei cavalieri.
Oltre alla lealtà era importante l'amore per una dama, nel nome della quale si era pronti ad affrontare indicibili sfide per difendere gli oppressi, anche a rischio della propria vita.
Al centro della leggenda c'era Artù, che molti identificavano nel valoroso cavaliere che nel V secolo D.C. sconfisse i sassoni invasori.
Era il periodo della rinascita celtica, quando non erano solo i re a governare ma anche i sacerdoti, i druidi.
Merlino, uno dei personaggi più affascinanti ma anche più complessi del mondo arturiano, doveva proprio essere un druido di alto livello.
Forse è stata la combinazione tra Merlino e Artù a convincere i britanni a schierarsi uniti, dopo che i Romani lasciarono il paese per combattere gli invasori.
E, secondo la tradizione letteraria, è stato il potere magico e spirituale datogli da Merlino che Artù fu in grado di estrarre la spada dalla roccia. quella spada che ancora oggi molti vedono come il simbolo della sofferenza della terra, il segno tangibile della sofferenza britannica.
Partendo da Camelot e con l'aiuto di Merlino, re Artù sarebbe stato capace di riscattare quella sofferenza, che durava quasi da quattrocento anni a causa dell'invasione romana, rendendo di nuovo la Britannia un regno di grande valore economico, politico e spirituale.
Da sempre la figura di questo leggendario sovrano affascina ma pone anche degli interrogativi. Chi era davvero Artù? E' esistito realmente o è solo un'invenzione letteraria?
Si pensa che, con la conquista sassone, in alcuni angoli della Gran Bretagna, si sia dato corpo al ricordo di quell'eroe del passato, un mito destinato a espandersi e ad avere vita lunga. Intorno alla metà del XII secolo, i re d'Inghilterra, che stavano gettando le basi di un grande regno che comprendeva anche buona parte della Francia, avevano bisogno di qualcosa che li legittimasse davanti all'aristocrazia normanna ma anche di fronte alle popolazioni celtiche e anglosassoni. Dovevano trovare in sostanza un elemento capace di avvicinarle e allo stesso essere così importante da competere con i sovrani francesi e con quelli dell'impero romano-germanico.
I primi infatti custodivano a Reims la Sacra Ampolla con l'olio usato per l'unzione dei sovrani che sanciva la loro investitura e che, secondo la tradizione, era stato portato dagli angeli; inoltre nell'abbazia di Saint Denis l'Orifiamma, il vessillo dato da Dio all'imperatore Carlo Magno. I tedeschi basavano invece la loro sacralità del loro potere regale sulla Cappella Palatina di Aquisgrana, dove erano conservate le spoglie dello stesso Carlo Magno. Che cosa poteva essere altrettanto forte?
La soluzione arrivò da un insieme di tradizioni popolari europee e di scritti a questi ispirati, tra i quali spiccava una primordiale figura di Artù. Tra l'VIII e il IX secolo nella Historia Britonum di Nennio, si parlava di un certo Arturus Rex che si rifaceva alla figura di un funzionario romano della Britannia, Lucius Artorius.
Nel X secolo, negli Annales Cambriae si narrava invece di una vittoria britannica sui sassoni avvenuta intorno al 516 D.C. e si riportava la storia di Re Arturus, che per tre giorni di seguito avrebbe portato sulle spalle la Croce di Cristo.
Le diverse storie su Artù avrebbero poi trovato una loro organicità nel XII secolo: nel 1135 con la Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth e nei due anni seguenti con il De Antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, scritto da Guglielmo di Malmesbury.
La prima delle due opere venne tradotta e diffusa sia in Inghilterra sia in Francia, tanto che ispirò anche il Roman De Brut di Wace, dedicato nel 1155 a Eleonora d’Aquitania, nel quale venne descritta approfonditamente la Tavola Rotonda con i cavalieri che, sedendo in circolo, avevano tutti la stessa importanza. Far sedere tutti su una seduta uguale, senza che nessuno avesse una posizione dominante, e servire tutti nello stesso modo, permetteva di rendere inequivocabile l’unità del gruppo. Ma è stato con un poeta francese, Chretien de Troyes, che si è parlato per la prima volta di Camelot. Intorno al 1165 egli scriveva degli splendidi romanzi in versi alla corte della regina Maria di Champagne, figlia di Eleonora d’Aquitania, accanto alla quale stava nascendo la cosiddetta cultura cortese.
Le storie nascevano unendo un insieme di leggende celtiche e suggestioni contemporanee, spesso ispirate da Maria. E proprio a lei Chretien dedicò il Lancelot, scritto nel 1176, al quale seguì nel 1181 e 1190, il suo Parceval, ou le conte du graal. E’ nel Parceval che si parla per la prima volta del Graal descritto come una coppa o un bacino. Secondo gli studiosi si tratterebbe della rielaborazione di un antico mito celtico, che avrebbe avuto anche delle corrispondenze nel mondo baltico, germanico, persiano e arabo. Quello che però prima veniva considerato una sorta di recipiente incantato, acquista qui un carattere cristiano, reso sacro dal contatto diretto con Gesù Cristo. Chretien chiamò poi Camelot la reggia di Re Artù, e diede vita a importanti protagonisti come Percival e Lancillotto.
Tra le fonti più importanti dalle quali ha preso vita il mito di Artù, ci sarebbe anche il Mabinogion, una raccolta di undici racconti in lingua gallese risalenti a un periodo precedente l’XI secolo ma che riportano storie narrate secoli prima. Così, personaggi fondamentali come Artù, Merlino, Ginevra e Morgana appaiono derivare da eroi o divinità della tradizione celtica, che ha avuto una vasta diffusione in più parti d’Europa. Con tutti i contrasti che storicamente hanno coinvolto la civiltà dei celti, quindi con influenze dei romani prima e dei germani poi. E se nel mito della tavola rotonda ci fosse anche il mito italiano? Chi non conosce l’episodio nel quale il giovane Artù, grazie alla sua nobiltà d’animo e all’aiuto di Merlino, riesce a estrarre “La spada nella roccia”e a diventare re? Forse potrebbe avere delle radici molto vicine a noi.
Una cappella rotonda in piena Toscana è legata a una storia che ha molti punti in comune con Camelot . Tutto ha inizio verso la fine del XII secolo a Montesiepi. Protagonista è Galgano Guidotti, nato nel 1148 a Chiusdino, unico figlio di una ricca famiglia toscana. Da giovane conduceva una vita dissoluta, ma all’età di 32 anni vide in sogno il principe degli angeli, Michele, che gli ordinò di seguirlo e di lasciare ogni suo avere.
Galgano ricevette direttamente dai dodici apostoli anche l’ordine di costruire una rotonda a Montesiepi, nella quale doveva poi ritirarsi a vivere da eremita. A nulla servirono le insistenze della madre e degli amici perché non desse seguito allo strano sogno. Secondo la leggenda, un giorno il suo cavallo si imbizzarrì e lo condusse proprio a Montesiepi. Qui Galgano conficcò a terra la sua spada, con l’intenzione di farne una croce, ma incredibilmente questa restò bloccata nella roccia viva. In un baleno si sparse la voce di quella spada, la cui impugnatura aveva assunto la forma di una croce, e il piccolo paese di Montesiepi divenne meta di pellegrini in cerca di miracoli. Galgano morì di stenti nel 1181 e fu canonizzato in gran fretta nel 1185. Che non si sia trattato soltanto di una leggenda è anche testimoniato da uno studio dell’università di Pavia, secondo la quale la spada risalirebbe proprio al XII secolo. Ma che cosa avrebbero in comune le figure di Galgano e di Artù?
Nel 1190, solo nove anni dopo la morte di Galgano, Chretien De Troyes scrisse il Parceval, nel quale parlava appunto di Re Artù, dei cavalieri della tavola rotonda e della spada nella roccia. Con uno dei cavalieri, Galvano, che ha un nome molto simile a quello dell’eremita italiano e che nelle raffigurazioni dei cavalieri della Tavola Rotonda impugna spesso la spada di Artù, Excalibur. Ma Galgano e Artù potrebbe essere lo stesso personaggio? Il santo non è stato molto venerato dai suoi contemporanei e forse il suo messaggio di pace, con la spada trasformata in croce, non era proprio quella che ci voleva in un’ epoca dura come quella delle crociate. Può essere allora che la sua storia si stata trasformata in qualcosa di più utile alla causa cristiana, e la sua spada sia diventata una spada invincibile contro gli infedeli?
Un’altra considerazione ci porta sempre in Italia. La leggenda di Artù scritta da Chretien De Troyes, è arrivata da noi un secolo più tardi, quando la Basilica di San Nicola a Bari era già stata costruita e consacrata. Ma com’è possibile allora che Artù e il Graal vi siano stati rappresentati con così largo anticipo? Probabilmente esisteva anche una leggenda orale italiana che Chretien si sarebbe limitato a mettere per iscritto. La saga arturiana è comunque proseguita, estendendosi e ampliandosi nel tempo. Con le opere conosciute come “IL Ciclo della Vulgata”, scritte nei primi anni del 1200, vennero aggiunti altri spunti poetici. In diverse parti d’Europa si narrarono nuove storie dei cavalieri della Tavola Rotonda e del loro re.
Intorno al 1210 il tedesco Wolfram Von Eschenbach scrisse il suo Parzival, nel quale avevano un gran peso gli elementi esoterici. Ma solo verso il 1450, con Le Morte Darthur di Sir Thomas Malory, furono messi insieme tutti gli elementi della storia di Re Artù come la conosciamo noi. Vi si racconta, infatti, della nascita di Artù, della sua tutela da parte di Merlino, della sua ascesa al trono d’Inghilterra per essere riuscito ad estrarre la spada Excalibur dalla roccia, della Tavola Rotonda a Camelot , dall’amore proibito tra Lancillotto e Ginevra, della nascita di Mordred dall’unione incestuosa tra Artù e la sua sorellastra Morgana, della ricerca del Graal fino alla stessa morte di Artù in battaglia contro Modred e del suo riposo ad Avalon.
Nei secoli la passione per la saga di Artù e dei suoi cavalieri non si è mai sopita. Anzi, si è sempre cercato di dare una fisionomia reale a quelle che dovevano solo essere delle invenzioni letterarie. La stessa Camelot è stata identificata già molto tempo fa dall’archivista di Enrico VIII nel cosiddetto castello di Cadbury, nel Somerset. Che però, a giudicare dai resti ritrovati, non era un castello nel senso tradizionale ma piuttosto una sorta di collina un tempo fortificata, il quartier generale di una vasta armata di cavalieri. Secondo le leggende locali, Re Artù e i suoi cavalieri scenderebbero ancora della collina nelle notti del solstizio d’estate e quelle del solstizio d’inverno, più precisamente a Natale, per recarsi alla vicina sorgente a far rifocillare i loro cavalli.
Un altro luogo associato ad Artù è il castello di Tintagel, le cui rovine si trovano su un promontorio della costa della Cornovaglia. Qui sono stati trovati resti di epoca tardo-romana e reperti provenienti dalla Francia e dal Nord Africa. Nel castello di Winchester invece si è creduto di riconoscere, in uno splendido tavolo circolare in legno di quercia, la mitica Tavola Rotonda, prima di scoprire però che si trattava di un manufatto medievale. C’è chi poi ha voluto identificare Camlann, il campo di battaglia in cui Artù morì, con Camelford, anch’esso in Cornovaglia, ipotesi però mai confermata dal ritrovamento di reperti. Infine, lo specchio d’acqua nel quale Artù, ferito a morte, ordinò a Sir Bedevere di gettare Excalibur, la sua spada incantata, sarebbe quello di Dozmary, dal quale ancora oggi qualcuno spera di vedere uscire la Dama del Lago

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